Se c’è una cosa che mi ha fatto innamorare del rap fin dall’inizio è stata la parola. Usata in modo chirurgico, senza filtri, senza paura. Un modo di raccontare il mondo che difficilmente trovi in altri generi.
La parola, per chi fa rap, è tutto. È un’arma, è un rifugio, è il modo per sputare fuori quello che dentro brucia. È anche un modo per andare contro, per dare voce a quello che di solito si fa finta di non vedere.
Penso a “La mia parola” di Shablo, Guè, Joshua e Tormento: partendo dal concetto di “my word”, la mia parola, la parola viene vista come promessa, come scudo, come identità.
Nel rap la parola non è mai stata un riempitivo, nemmeno quando il suono si è aperto, è diventato più pop. Anzi. Anche quando i beat cambiano, anche quando il mercato ti spinge a semplificare, il lirismo rimane al centro.
Negli anni il linguaggio si è evoluto. Sono nate nuove forme, nuovi incastri, nuovi modi di comunicare. Colpa (o merito) della globalizzazione, dei social, dei nuovi sottogeneri.
Ma la sostanza non cambia: la differenza la fa come usi le parole. Come le incastri, come le fai suonare, come costruisci un linguaggio che diventa il tuo.
La verità è che i rapper veri li riconosci da questo. Non da quanto spaccano su TikTok. Non da quante playlist fanno.
Li riconosci da come parlano. Da come scrivono. Dal peso che danno a ogni singola parola.
Rapper come Marracash, Rancore, Nayt, Fibra, Jack The Smoker, Gemitaiz, Nitro.
Da anni hanno costruito tutto su questo, sulla parola.
Sul modo di usarla per raccontare la vita, le paure, la rabbia, le vittorie.
La cultura hip hop cambia, si trasforma. Ma una cosa non cambia mai: nel rap conta la parola. E chi sa usarla davvero, rimane.
Sempre.